Il desiderio e la mente
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 20 giugno 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]
Il passato prossimo per entrare in
argomento. La concezione del rapporto fra il desiderio
e la mente per quasi un secolo è stata influenzata dalle impronte
lasciate nella cultura popolare e di massa da alcune forme vulgate del pensiero
psicoanalitico, che attribuivano alla mancata soddisfazione dei desideri una connotazione
costantemente negativa, in una gamma che andava dalla semplice frustrazione
alla repressione patogena. È vero che, in una fase dei suoi studi,
Sigmund Freud ha ipotizzato e teorizzato quale causa di nevrosi la mancata
soddisfazione di desideri erotici[1], ma è pur
vero che la sua ricerca del ruolo causale dei disturbi psichici si è evoluta
mutando nel tempo, e conservando un valore – se non altro speculativo – solo a
patto che si accettino, accanto ai suoi due modelli, topologico ed energetico
della psiche, le tesi sulla natura libidica delle tappe dello sviluppo e, infine,
che si apprezzi la polivalenza del termine libido, originato dal tedesco
liebe (amare), dopo aver considerato la gamma dei suoi valori semantici.
È innegabile che l’abbandono del termine istinto
e l’introduzione del concetto di pulsione, quale “entità a metà tra l’organico
e lo psichico”, abbia costituito un cambiamento epocale nel modo di concepire
la radice dei desideri[2];
tuttavia, leggendo Freud, appare evidente che le spinte pulsionali erano tutt’altro
che quegli elementi definiti e incoercibili della cultura popolare, come si
desume da questo brano: “Le fonti di tale eccitamento interno sono in massima
parte le cosiddette pulsioni dell’organismo, che fungono da rappresentanti di
tutte le forze che dall’interno del corpo vengono trasmesse all’apparato
psichico, costituendo l’elemento al tempo stesso più importante e più oscuro della
ricerca psicoanalitica”[3].
A cento anni esatti dalla pubblicazione di queste
parole, appare evidente che il fondatore della psicoanalisi si rendesse
perfettamente conto tanto della centralità della forza pulsionale per la coerenza
della sua teoria, quanto dell’impossibilità di conferire a questa energia un
profilo più certo e definito.
Jacques Lacan, che si professava interprete
autentico del pensiero di Freud, definì la psicoanalisi un interrogativo sul
godimento e, non pochi epigoni di entrambi, aggiustando il tiro, proposero una
formula che ebbe un certo successo in vari ambienti culturali di fine secolo:
un interrogativo sul desiderio[4].
Ma la psicoanalisi era stata molto di più di un
semplice interrogativo sul desiderio: ne aveva cambiato la concezione e l’immagine
negativa, conservata per duemila anni di storia occidentale, con radici nel
XIII secolo a.C., quando Mosè diede al popolo ebraico le tavole dei dieci comandamenti
con l’espresso divieto di desiderare la donna e la roba altrui.
Molti filosofi greci, senza demonizzare il
desiderio che genera passioni nutrici di concupiscenza, avevano insegnato modi
per neutralizzarlo, come nella tradizione della Stoa o di Epicuro, ma sono
stati numerosissimi i pensatori di tutte le epoche fino ai giorni nostri, anche
tra i non credenti, che hanno teorizzato il rifiuto, il controllo, il
modellamento o la lotta contro quello che hanno riconosciuto come un nemico
dell’equilibrio interiore.
La concezione psicodinamica del desiderio, come
forza naturale che contribuisce all’energia vitale della persona, da non
frustrare o reprimere eccessivamente per non causare disturbi psicopatologici, realizzava
l’alleanza fra il sapere medico-scientifico e la ribellione ideologica contro
la morale della classe al potere, anche se finiva per giustificare le semplici spinte
verso il libertinaggio, presenti in ogni società e in ogni epoca.
Il presente del desiderio nella
problematica condivisione di uno stile del mentale. Nella
realtà attuale si vive l’indubbio svantaggio di non avere grandi pensatori di
riferimento, ma allo stesso tempo si gode il privilegio della libertà di
scegliere le fonti cui attingere e la direzione da prendere, senza pagar dazio
a un pensiero egemone.
Nella maggior parte di filosofi e pensatori
contemporanei colpisce la mancata distinzione fra desideri e bisogni;
questa scelta è forse dovuta al fatto che anche le spinte originate dal bisogno
materiale più assoluto, a volte nell’uomo possono prendere la forma e lo stile
dell’aspirazione o della brama di ottenere un valore astratto agognato, come un
riconoscimento, un titolo, un merito. Tuttavia, il discrimine che in semeiotica
psichiatrica consentiva la descrizione di sindromi in cui il paziente come nel
capriccio infantile faceva di ogni desiderio un bisogno, rimane illuminante per
distinguere uno stato mentale originato da necessità biologica, da uno
legato alla ciclica comparsa di una novità piacevole seguita dall’appagamento
del possesso, come nel paradigma infantile del giocattolo.
In queste mie parole è evidente l’allusione al
bambino come termine di paragone e, implicitamente, alla funzione dell’educazione
che, a differenza dell’addestramento e dell’istruzione, riguarda direttamente
il desiderio, perché intende dare forma al sentire prima ancora che all’agire
della persona. Ma ogni sistema educativo, come ogni teoria pedagogica, si basa
su un modello, la cui piena realizzazione compie la persona adulta. La forma
del desiderio deve dunque essere ricondotta al modello. Ma quale
modello?
Domanda sacrosanta in una realtà in cui l’auspicato
pluralismo culturale pare essersi risolto in una varietà di forme, spesso prive
di sostanza, che riflettono più una frammentazione dell’esperienza collettiva
che l’incontro di stili antropologici differenti. Una condizione in cui il disorientamento
di molti ha favorito una generalizzata superficialità e noncuranza per le idee
stesse di costruzione di sé e scelta di riferimenti esemplari da seguire.
Il problema ci rinvia alla irrisolta crisi post-moderna di modelli e paradigmi,
che oggi è la principale ragione di quel “fai da te” diffuso e incolpevole, che
in luogo di ispirare i moti della propria sensibilità a valori di senso
coerenti, li indirizza secondo le mode imperanti e, invece di operare
seguendo istanze ideali, procede a spanne, spesso sostituendo alla sostanza
di una norma morale la forma del politically correct[5].
Naturalmente, ciò non vuol dire che non vi siano
intorno a noi, come peraltro ciascuno può costatare, esempi di vita costruita
secondo un preciso modello ideale e vigilata da una coscienza critica
costantemente all’opera. Ma rimangono, a quanto pare, un’esigua minoranza. In
ogni caso, indipendentemente da una bildung, intesa come costruzione
culturale e morale di sé, ciascuno deve fare i conti con il proprio desiderare.
Esaurita questa parentesi doverosa, anche se
forse un po’ troppo lunga sui modelli che danno forma all’espressione del
desiderio incidendo sulla sua connotazione sociale, ritorno alla ragionevole
utilità della distinzione fra richiesta indotta dal bisogno e voglia
suscitata dall’esperienza: la richiesta di cibo dopo un lungo digiuno rispetto
all’attrazione per una golosità che dopo pranzo si scorge esposta in una
vetrina differisce per stato dell’organismo, del cervello e della mente, che
condizionano il grado di rinunciabilità al vaglio della ragione. In questo
esempio la differenza è chiara ed evidente, e può essere più che semplicemente
biologica, in quanto il giudizio morale di distinzione fra necessario e superfluo
può trovare consenso unanime.
Ma, se usciamo da questi due poli estremi, come
si fa a distinguere le componenti di bisogno energetico, calorico, idrico ed
elettrolitico da quelle voluttuarie in un appetito selettivo per un cibo
specifico? Come si possono misurare, quantificare o escludere componenti di
bisogno di affetto, di amicizia, di umana solidarietà, di gratificazione morale,
di sostegno, di condivisione, nel desiderio suscitato dall’attrazione di una persona
di sesso opposto? Come si fa la tara delle tendenze inconsce, quelle che senza
una ragione cosciente ci inducono a preferire, cercare e desiderare particolari
persone, luoghi, oggetti e circostanze che sembrano appartenerci anche se le
conosciamo a stento? Come si fa a stabilire se una voglia o un capriccio non
rappresenti un adattamento psicologico di compenso per un bisogno che non si
potrà mai soddisfare? E cosa possiamo dire sull’arbitrio culturale per la
definizione e la quantificazione del “superfluo”, che varia da una cultura all’altra,
da un ceto sociale all’altro, da un quartiere all’altro di una stessa città, e
di certo nelle classi elevate di tutto il mondo si sublima in vari oggetti di
culto feticistico, denominati status symbol?
È dunque difficile analizzare e distinguere con
precisione le componenti di necessità da quelle voluttuarie nel
costituirsi di un desiderio; ma non credo che tale difficoltà rappresenti una
ragione sufficiente per abbandonare la distinzione. L’impiego di questa dicotomia
come paradigma elementare, ci consente ad esempio di capire l’effetto psichico
maggiore delle sostanze psicotrope che causano dipendenza, le cosiddette droghe:
inducono il cervello a funzionare come in una condizione di necessità assoluta,
attivando i circuiti evoluti per la ricerca di cibo in stato di inedia. Trasformano,
appunto, il desiderio in bisogno.
Si può poi osservare che proprio il grande
business del voluttuario, in ogni sua forma merceologica, costituisce un
tratto distintivo del tempo presente.
Il desiderio un tempo atteneva principalmente
alla sfera individuale della consapevolezza personale e all’ambito affettivo
dei rapporti interpersonali; oggi è posto massicciamente in questione nella
dimensione pubblica attraverso due apparati di grande impatto economico e
finanziario: la moda e la pubblicità.
Due mondi artificiali fondati sulla negazione
della povertà, sulla stimolazione dei desideri e sull’idolatria dell’attualità,
nella religione del consumo. Il nostro sistema nervoso centrale adotta due
meccanismi principali per regolare l’innesco del desiderio: la sazietà e
l’assuefazione. La moda è concepita per aggirarli entrambi: la sazietà,
in quanto effetto della soddisfazione di un bisogno, viene neutralizzata dal
presupposto che non si compra per necessità ma per acquisire il valore
temporaneo di ciò che è attuale; l’assuefazione è resa impossibile dal connotato
essenziale di novità, implicito nell’impresa e rappresentato ad ogni
nuovo lancio in modo evidente se non vistoso. La moda usa raffinati e complessi
artifici per accendere il desiderio, compreso il miraggio di offrirti una nuova
identità che, manco a dirlo, è fatta di forma che annienta la sostanza: per
presentare le novità nell’abbigliamento femminile da tempo immemorabile la
stampa ci dice “come sarà la donna” il prossimo anno.
La pubblicità – termine col quale
indichiamo convenzionalmente la propaganda commerciale – oltre ad essere intimamente
legata alle mode, costituisce un ambito specializzato di tecniche comunicative che
impiegano la conoscenza psicologica per promuovere il consumo. Sempre esistita,
pare sia consistita a lungo in una semplice informazione al pubblico dell’esistenza
di un prodotto, come si desume da tracce archeologiche ritrovate a Pompei e
Ostia, e sembra si possa desumere dai resoconti medievali su araldi e banditori.
Anche se i ciarlatani, ossia i venditori di pozioni miracolose e rimedi contro
ogni problema, che dai tempi più remoti attraversavano l’Italia su carri scoperti
richiamando l’attenzione con musici e grancassa, tendevano già all’attrazione e
alla persuasione del popolo con grossolani artifici.
Pervasiva e martellante è oggi la pubblicità che ci
raggiunge su telefonini, tablet, computer e televisori, interrompendo,
invadendo e disturbando ogni cosa con un’impertinenza molesta, che rende le sue
tecniche seduttive non più seducenti. Tenta l’impossibile: non si limita più ad
accostare sguardi invitanti, bellezze da sogno, eleganze raffinate o corpi
denudati al messaggio per vendere automobili, profumi, prodotti alimentari o
gioielli, giunge a fondere il teaser erotico con quello alimentare, come
quel brand di yoghurt che invita a “fare l’amore col sapore”. Accresce
il desiderio o raggiunge il ridicolo?
A questo punto non posso esimermi dal menzionare
l’apparato industriale ed economico che sfrutta il desiderio sessuale. Con il
diffondersi dell’uso di internet, il fatturato dei siti classificati nella
categoria sex per molti anni ha occupato il primo posto in classifica,
superato poi da quello dei siti finanziari. Il fenomeno del “sesso digitale” meriterebbe
l’approfondimento di un saggio ma, anche solo di passaggio, si può osservare
che ha determinato la definitiva uscita di quel genere di immagini da ambiti
riservati e la cancellazione della distinzione cinematografica fra genere
erotico, spesso ispirato all’eros della grande pittura figurativa, e genere pornografico,
spesso di scarsa qualità tecnica, centrato su atti sessuali espliciti e di gusto
volgare. E ancora, poiché questo tipo di siti è strutturato come una sorta di
supermercato del sesso, fornito di tutte le categorie vendibili, ha diffuso contiguità
fra le semplici immagini di quel mostrare il corpo che si chiamava “prostituzione
bianca” e una gamma di perversioni sconcertanti, disgustose, raccapriccianti e,
non di rado, penalmente rilevanti.
Indipendentemente dal numero complessivo di
utenti, target o impiegati in questi settori, mi chiedo quanti veramente
si riconoscano nel senso che gli operatori veicolano – spesso inconsapevolmente
– attraverso il valore attribuito mediante i costi, le gerarchie del lusso e le
categorie in cui classificano merci e acquirenti.
Nessuno dei miei interlocutori italiani e
stranieri si riconosce nel potere di attribuire senso attraverso la
monetizzazione del valore e, anche se non si tratta di un campione
statisticamente significativo, ho buoni motivi per prenderlo sul serio: ho
trovato ragioni profonde e coerenti in ciascuna delle persone con le quali ho
discusso e discuto dei fatti della vita che, nel loro insieme, se vogliamo
prendere per buona la definizione di Wittgenstein, costituiscono il mondo. Ma
anche i dissenzienti, pochi o molti che siano, in questo mondo di fatti si
sottomettono a quel potere, quasi fossero timorosi sudditi di una ineluttabile
dittatura, facendo scomparire col loro silenzio i valori in cui credono, nei
quali sono cresciute generazioni, calibrando la propria ragione ed esercitando
la propria intelligenza. Come insegnano gli storici, quando la realtà
prevalente non ha più rapporto con la cultura fondativa di una civiltà, si è in
un’epoca di decadenza.
Molti critici del tempo presente sono andati ben
oltre questa mia quasi ovvia costatazione, parlando di inciviltà del consumo,
di nuovo medioevo, di imbarbarimento sociale, di stagnazione regressiva, e così
via, ma alla loro denuncia filosofica non ha fatto seguito la costruzione di un’alternativa
culturale forte che attribuisse stima sociale preminente e prioritaria alle
risorse dell’ingegno, dell’arte e dello spirito, quali beni inestimabili e non negoziabili,
con ridimensionamento dell’imperante sottocultura della mercificazione e
monetizzazione del valore. Chi accetta di mettere il proprio desiderio nelle
mani dei produttori di profitto che si arricchiscono alle spalle di acquirenti strumentalizzati
dal meccanismo consumistico, magari si convince di aver realizzato dei sogni con
degli acquisti, ma di fatto ha continuato a finanziare e alimentare un sistema
che svilisce l’uomo.
È tanto necessaria quanto trascurata la coscienza
vigile circa le “prese per il desiderio” quale prassi costante dei sistemi
commerciali. È in questione il significato degli atti che compiamo. Infatti,
mentre per i bisogni il senso è dato dalla loro ragione biologica, che in ultima
analisi ne fa una questione di vita o di morte, per i desideri è sempre in
gioco un’arbitrarietà di fondo, per quanto i condizionamenti sociali la possano
nascondere, facendoci apparire le richieste suscitate da propaganda, mode o
tendenze sociali, quali istanze inalienabili. Ogni desiderio che nasce dentro
di noi dovrebbe interrogarci sul senso che lo ha generato. E prima ancora di
augurare alle persone che amiamo la realizzazione dei loro desideri, dovremmo
augurare loro di desiderare saggiamente.
Le parole sono importanti:
bisognerebbe sapere cosa si dice per capire cosa si pensa. Due termini
che hanno avuto per secoli connotazione negativa, ossia seduzione e trasgressione,
negli ultimi decenni sono entrati nel gergo della comunicazione di massa con un
valore semantico positivo, ormai convenzionale e consolidato dall’uso
pubblicitario. Non si tratta di una semplice evoluzione d’uso lessicale,
di quelle che si verificano frequentemente nella storia delle lingue, come
quando in italiano si sono accantonati cacio e balocco per i
gallicismi formaggio e giocattolo; in quei casi si è conservato
il senso mutando il vocabolo preferito per esprimerlo, nel nostro caso si è conservato
il termine, usandolo ostentatamente in un’accezione semantica opposta.
Seduzione (da sé-duzione)
indicava l’esercizio dell’azione diabolica consistente nel “condurre a sé” le
anime, sottraendole a Dio: per eccellenza l’opera del maligno. Usato per
indicare l’attrazione esercitata da un amore illecito, per definizione
peccaminoso e dunque luciferino, il termine ebbe largo impiego nel 1787 per
descrivere l’attività di Don Giovanni, il personaggio creato da Lorenzo Da
Ponte per l’opera omonima resa un capolavoro dalla musica di Mozart: il
libertino, dopo aver stretto la mano al convitato di pietra, è trascinato da
demoni e diavoli nelle fiamme dell’inferno. Dopo la rivoluzione, i non credenti
francesi diffondevano l’uso del verbo sedurre quale sinonimo di
ammaliare, affascinare o incantare, per contestare il valore di peccato dell’adulterio
e del desiderare la donna altrui. In Italia, fino agli anni Sessanta, sedurre
voleva dire traviare, attrarre al male o distogliere dal bene, e nel gergo
giuridico si adoperava per riferirsi all’adescamento. Solo in seguito si è
andato affermando, inizialmente come francesismo usato da alcuni nostri filosofi,
l’uso di seduzione per un atto che suscita attrazione, innamoramento o
desiderio erotico.
Trasgressione era la
violazione del patto di alleanza con Dio da parte del peccatore, indicando
specificamente la disobbedienza alla legge divina. Il suo principale sinonimo
era profanazione. Si è esteso poi ad indicare l’infrazione di una legge dello
Stato da parte del delinquente e, nelle epoche successive, per riferirsi a qualsiasi
inosservanza di codici, norme e regolamenti. Nel gergo della moda e dello star
system il termine trasgressivo ha assunto una connotazione positiva,
indicando di fatto ciò che non è convenzionale, è provocatorio, originale o
solo un po’ bizzarro; naturalmente, implicando che la sobria convenzionalità
dell’ordinario sia cosa negativa[6].
Ho voluto citare questi due esempi di acquisizione
di valore semantico positivo perché mi sembrano esemplari di un’operazione
globale di rimozione dell’intralcio di un pensiero morale che possa per varie
ragioni limitare i consumi. Un’inchiesta sociologica di alcuni anni fa su
uomini e donne che avevano relazioni extraconiugali ha rilevato un incremento
spropositato delle spese alle voci cosmetici, abbigliamento, gioielli,
spettacoli, ristoranti e viaggi; per i livelli di reddito più elevati
crescevano anche le spese immobiliari, il numero di automobili, imbarcazioni e
perfino aerei privati. Ad ogni nuovo partner si registrava una fase iniziale di
aumento esponenziale delle spese. Oggi i don Giovanni e i Casanova non si
rappresentano più nel fuoco dell’inferno, perché sono clienti privilegiati di
tante attività commerciali e, con la parità sessuale che vede oggi molte donne
manager superare di gran lunga le controparti maschili nel numero di amanti, li
si indica con l’etichetta unisex serial lover, con connotazione
rigorosamente positiva, anche se forse ricorda un po’ troppo serial killer.
Il desiderio è da sempre un grande motore dell’economia,
ma oggi sembra che sia l’economia a moltiplicare i desideri monetizzabili, indirizzando
intere masse di consumatori verso un’idolatria acefala, fondata su un edonismo
espresso in forme di egoismo temporaneamente condiviso.
Qualche appunto sulle radici di
senso delle concezioni attuali. Le fonti
greche, che ci consentono di risalire in una prospettiva storico-antropologica
agli antecedenti originari dei costumi neopagani diffusi attualmente per
conformismo di comodo, e le fonti ebraico-cristiane che hanno ispirato tutta la
morale occidentale, rimangono utili e stimolanti, soprattutto nel riconoscimento
di una differenza paradigmatica nella concezione del desiderio che può illuminarci
su contrasti e paradossi del presente.
I Greci miravano a conoscere il desiderio per
padroneggiarlo, nell’ambito di uno studio di sé che consentiva di acquisire una
competenza: passo necessario per un agire appropriato. Gli Epicurei, a
questo scopo, seguivano la prassi della riduzione un poco al giorno della quantità
di piaceri abituali, come quelli del cibo e delle libagioni, per stabilire il
limite fra il necessario e il voluttuario. Altre scuole di pensiero adoperavano
altri metodi, ma il fine era sempre quello di conoscersi per esercitare con cognizione
di causa la pratica della ragione dell’equilibrio o di una particolare condotta
ispirata alla saggezza o fronesis.
La differenza con la visione ebraico-cristiana è
netta e inconciliabile, come appare con tutta la potenza iconografica
michelangiolesca nella scena del peccato originale della Cappella Sistina: la demonizzazione
del desiderio. In senso proprio, e non metaforico secondo l’uso attuale. Il
desiderio che infrange il patto si identifica con lo spirito del male, che si
insinua, scorrendo viscido e silenzioso come un serpente nel pensiero[7], e tenta attraverso
la sua compagna “colui che è fatto di terra”, nel testo ebraico Adhām, reso
in latino col termine Homo, che viene da humus, terra[8].
La ragione è presto detta: il messaggio oblativo della
spiritualità ebraica, compiuto in quella cristiana che si fonda sul sacrificio in
croce del Dio stesso incarnato, è il dono di sé come senso della vita e
significato dell’amore. Volere per sé, qualunque cosa che vada oltre il
necessario per soddisfare i bisogni primari, è in antitesi con questa
concezione.
In tutti questi anni, al Seminario Permanente
sull’Arte del Vivere, ho dedicato numerosi incontri di approfondimento a questo
argomento e, in particolare, alla possibilità di mettere al servizio di una
concezione totalmente oblativa e altruistica, quale quella cristiana, l’acquisizione
di competenza del proprio desiderio secondo la visione dei Greci e la
conoscenza scientifica della fisiologia e della psicologia umana. Non sarei in
grado di riassumere quel lavoro, anche perché credo che quanto vi possa essere
di valido consista proprio nell’articolazione delle argomentazioni e nelle
citazioni dei numerosi riferimenti, che non si prestano a sintesi lapidarie.
Per questo rimando agli scritti passati e ad occasioni future per lo
svolgimento di una tematica che mi è molto cara.
Qui mi piace ricordare che i molteplici aspetti degli
stati mentali associati al nostro volere qualcosa che non si ha
includono processi eminentemente cognitivi. Non tutti i desideri nascono da un
bisogno fisico, da una spinta emozionale, da una richiesta d’affezione, da una
tensione verso il piacere o da un gusto estetico, alcuni originano dalla
ragione che elabora conoscenza. Quando il desiderio verte su uno scopo definito
e ispira un progetto per la sua soddisfazione, gli si cambia nome, lo si
definisce aspirazione.
Le aspirazioni sono oggi studiate, come la
capacità di fare piani e progetti per il futuro, da coloro che indagano in neurofisiologia
e neuropsicologia la corteccia prefrontale e le regioni connesse. Diversamente,
il desiderio associato ai bisogni omeostatici è studiato prevalentemente dai
ricercatori che analizzano le basi sottocorticali della motivazione.
Le neuroscienze non hanno ancora fornito la
chiave per sviluppare un nuovo paradigma o per riportare in modo soddisfacente
l’essenza concettuale del desiderio a un oggetto scientifico noto, limitandosi
per ora a fornire interessanti dati su ciò che avviene nel cervello dei
mammiferi, e nel nostro in particolare, quando si vive un’attesa o si è
motivati alla ricerca di qualcosa.
Sulla base delle conoscenze attuali possiamo
provare a riportare l’ambito dell’esperienza del desiderio ai correlati neurofunzionali
di due stati mentali, quali la motivazione e la conazione ad ottenere
piacere. La ricerca neuroscientifica ha individuato nel sistema a
ricompensa, e in particolare nell’area tegmentale ventrale (VTA) in connessione
con il nucleo accumbens, il principale centro di interesse per studi che
saranno oggetto di una specifica trattazione.
Considerazioni personali per concludere
questo scritto. Fin da ragazzo sono stato
affascinato dalla socratica frase dell’Oracolo di Delfi, scolpita all’ingresso
del tempio periptero dove erano raccolte le massime dei Sette Sapienti: ΓΝΩΘΙ
ΣΕΑΥΤΟΝ, conosci te stesso.
Poi ho compreso che ciascuno di noi, se è
certamente una quantità limitata di energia, di potere, non è sicuramente una
qualità definita di forma, di struttura. E per questo ho cominciato a ritenere
che per conoscere le persone, compreso sé stesso, si dovrebbe sempre andare
oltre le espressioni evidenti e considerare ciascuno non solo per come è, ma
anche per come vorrebbe essere: fare credito al desiderio di ciascuno,
guardandolo con gli occhi della speranza di cui siamo capaci.
Ho anche capito che conoscersi, ossia entrare
nella consapevolezza di sé con lo strumento della riflessione, comporta sempre
un cambiarsi, che lo si voglia o no, anche solo un poco, anche solo per quella
parte trascurata da noi stessi che, venendo alla luce della coscienza, da
quiescente ed amorfa diviene attiva e partecipata.
Allora ne ho dedotto che se conoscersi non può
essere un semplice e distaccato occuparsi di sé, osservandosi come un oggetto
esterno, tanto vale che si agisca su sé stessi per migliorarsi secondo le
proprie convinzioni. E questo agire ha comportato proprio un dar forma al
desiderio e, comprendendo che ciascuno di noi esiste in un contesto umano al
quale è legato da vincoli di responsabilità, ho cercato e cerco di fare in modo
che il mio desiderio sia per gli altri speranza.
L’autore della
nota invita alla
lettura degli
scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-20 giugno 2020
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Celebre la frase: “Se la donna deve
scegliere tra infedeltà e nevrosi, scelga l’infedeltà”.
[2] Una particolarità era questa: le
congetture freudiane erano formulate in maniera rigorosa e costituivano un “sapere
scientifico sull’uomo”, ma rinunciavano a un concetto, quale quello di “istinto”,
che tipicamente nella scienza accomunava l’uomo agli animali, e proponevano con
le pulsioni una categoria concettuale squisitamente umana, come solo il
sapere umanistico aveva fatto fino a quel momento.
[3] Sigmund Freud, Al di là del
principio di piacere (1920), p. 57, Boringhieri, Torino 1977.
[4] Ricordiamo, in proposito, anche una formula
suggerita da Lacan ai giovani psicoanalisti per orientarsi nella comprensione
del rapporto esistente fra il soggetto e la differente natura delle sue brame: il
desiderio verte su un oggetto – propriamente detto l’oggetto del
desiderio – mentre il bisogno segnala una mancanza. Lacan, servendosi
del gioco di sguardi fra Carmen e Don José nell’opera di Bizet, illustra il
potere di seduzione esercitato suscitando desiderio.
[5] Come ciascuno sa, ogni mancata
scelta di darsi forma mentale e sociale espone al rischio di prendere la forma dell’ambiente
circostante; ogni inerzia che indebolisce la coscienza di sé può tradursi in una
inconsapevole adesione allo stile prevalente. Se non si possiedono codici
interiori è facile che l’unico codice che si incontra, imposto dall’insistenza
mediatica, finisca per prendere il luogo avuto nella storia dal nomos
religioso, filosofico o ideologico.
[6] Per inciso, se si eccettuano le stravaganze dell’alta
moda che appaiono sulle passerelle per fare sensazione ma rimangono invendute,
una vera originalità si vede raramente, e la convenzionalità ordinaria come continuano
a rappresentarla i creatori di moda forse non esiste più da mezzo secolo, e rimane
un punch-ball nelle loro parole. Il loro “nuovo”, trito e ritrito,
spesso è solo un “diverso” a tutti i costi.
[7] Nell’antico ebraico biblico si
coglie la transizione nella cognizione comunicativa dall’analogia alla metafora,
con una resa del senso indubbiamente affascinante, ma soprattutto così efficace
da aver creato simbolismi ancora oggi irrinunciabili.
[8] Nel testo biblico del Genesi adhām, inteso come nome comune indicante il
genere umano, è posto in stretta relazione col vocabolo adhāmāh, che
vuol dire suolo, terra.
L’interpretazione degli antichi esegeti latini considerò la derivazione per
metafora dal termine indicante la terra che fu reso con Homo connesso a humus
e diverso da vir, indicante solo il maschio della specie umana. L’etimologia
di adhām rimane incerta. Nel tempo, alcuni
filologi hanno ipotizzato l’origine da una radice etiopica, altri da una radice
araba, qualcuno assira, ma non esistono prove a sostegno di alcuna di queste ricostruzioni
(Cfr. Treccani, Enciclopedia Italiana, alla voce Adamo). Non è
corretto quanto dato per certo su “Wikipedia”, ossia che origini dal sumerico “ada-mu”
(padre mio), ed è altrettanto erroneo che il collegamento con adhāmāh sia di
origine popolare, perché la relazione, qualsiasi sia la sua natura linguistica,
è stabilita dall’autore stesso del testo biblico (Genesi, II, 5-7; III, 19-23).